Il giro della trippa in ottanta paesi

Domani, a Dio piacendo, incontrerò Stefano Nesta e andremo a mangiare a Badoere di Morgano nel regno di uno chef, Ivano Mestriner, il cui magistero nel cucinare le frattaglie, forse, non ha eguali al mondo. In suo onore, e per chi non avesse mai letto queste pagine, ecco a voi il Giro della Trippa in 80 paesi

ANDOUILLES, ANDOUILLETTES E LE 'QUAGLIE' DELLA VUCCIRIA
Il Leopold Bloom di Joyce mangiava con gran gusto le interiora degli animali e dei volatili. Gli piaceva la minestra di rigaglie, i gozzi piccanti, il cuore ripieno arrosto, il fegato panato e fritto ma soprattutto i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto di urina leggermente aromatica. Io sono un Leopold Bloom dieci volte più goloso e più vorace con una compulsione per le frattaglie che rasenta il patologico. Nel mio nomadismo gastronomico ho collezionato centinaia e centinaia di piatti a base di trippe e di interiora in ogni paese. Creste di gallo, cervella, polmoni, midollo spinale, animelle, budelline, zampetti, rognoni, code, lingue, ventrigli, tettine, lampredotti, trippe - sì, trippe, perché parlare di trippa al singolare è segno di grande inciviltà gastronomica - sono il mio harem di gola. Per anni agli amici che mi chiedevano che progetti avessi in cantiere, rispondevo: 'un libro', ma non un libro come si aspettavano loro, bensì un centinaio di paginette in bilico tra un ricettario e un diario di viaggio da intitolare 'Il giro della trippa in 80 paesi'. Non c'è paese in cui ho viaggiato in cui non abbia assaggiato un piatto di trippa e ogni volta è stata un'esperienza diversa e intrigante; aspra e gommosa talora, troppo orientale e remota talvolta, piccante da lacrimare, così speziata da mandare in corto il mio palato; comunque andasse e comunque la cucinassero, la divoravo sempre con la voracità di una locusta. La migliore, ad oggi, resta quella che mi offrì un ambulante della Vucciria, mangiata in piedi in mezzo a umanità che sembrava uscita da una tela di Rembrandt, in mezzo a macellai che fendevano la folla, urlando, con lembi di pelle che penzolavano dai loro carretti, in mezzo a lingue divelte e sanguinanti, in mezzo a un pestifero odore di morte, a ceste trasudanti di sangue e di cervelle che impilate così mi ricordavano le meduse che le maree fanno arenare sulla battigia. Annaffiai la mia trippa con mezzolitro di Nero di Pachino e la accompagnai con una busta bisunta di 'quaglie', le melanzane cotte intere nell'olio con cui i siciliani amano imbottire il loro pane. Mentre il sangue arrossava i rigagnoli d'acqua che scorrevano intorno ai banchi dei macellai da una radiolina made in China sentivo Nino D'Angelo cantare...

A Caen la trippa è un'istituzione, come lo spiedo nel Bresciano o la salama da sugo nel ferrarese, ma i francesi rasentano la perfezione insaccandola nelle andouilles e nelle andouillettes – le migliori sono quelle normanne di Vire. Tutta la lavorazione avviene manualmente; le budella di maiale vengono pulite, tagliate a strisce, salate al sale di Guérande, messe a marinare per diversi giorni, poi si assemblano e si avvolgono in un budello nero stretto da una cordicella. L'andouille prima di esser messa ad asciugare e poi a cuocere tre ore nel brodo viene affumicata lentamente al fuoco di legna. La maison Charles Amand ne insacca una tradizionale, affumicata prima della cottura al fuoco di legna di melo. A Saint Malo, alla Creperie Gallo, indirizzo da conservare gelosamente, mi feci servire una galette bretone con farcia di andouille che oscurò tutti i Ferran Adrià di questa terra. Per i messicani e per i greci la trippa è più efficace di un'alka-seltzer; se devi smaltire i postumi di una sbornia menudo e patsà-soup sono una manosanta, come per i rumeni la ciorba de potroace. Sul menudo messicano, Raymond Carver, alcolista a tempo pieno e nei ritagli di tempo valente scrittore, costruì un celebre racconto in cui la preparazione del menudo è descritta con una minuzia artusiana.

"Erano le 2 di mattina, eravamo ubriachi e c'erano altre persone ubriache che giravano per la casa e lo stereo che andava a tutto volume. Ma Alfredo andò verso il frigo, lo aprì e cominciò a tirar fuori della roba. Poi chiuse la porta del frigo e si mise a guardare dentro al freezer. Trovò un sacchetto di qualcosa. Poi si mise a frugare nella credenza. Da sotto il lavandino tirò fuori una grossa pentola ed era pronto a cucinare. Prima la trippa. Cominciò con la trippa e due litri e mezzo d'acqua. Poi tritò la cipolla e l'aggiunse all'acqua che aveva cominciato a bollire. Buttò pezzettini di chorizo nella pentola, dopodiché, lasciò cadere nell'acqua bollente diversi grani di pepe intero e un pizzico di peperoncino in polvere. Poi ci mise l'olio d'oliva. Aprì una grande scatola di salsa di pomodoro e ce la verò tutta dentro. aggiunse spicchi d'aglio, alcune fette di pane bianco, sale, e succo di limone. Aprì un'altra scatoletta - purè di mais, questa volta - e la rovesciò tutta nella pentola. Dopo che ebbe messo tutto dentro, abbasso il fuoco e mise il coperchio alla pentola...".

Anche qui, come nella patsà greca, la trippa si cucina con aglio, peperoncino e limone, e in luogo dell'aceto, mais e chorizo; in entrambi i casi, menudo e patsà ti aiutano a uscire dal limbo di una sbornia meglio di una piantagione di caffè. La differenza è che mentre il menudo si presenta come una zuppa più densa, la patsà, spesso, è acquosa come molte zuppe giapponesi.

MANGIARE LA PATSÀ SOUP È UN PO' COME MANGIARE LA GRECIA
Ad Atene, uno dei migliori indirizzi per la patsà è il Mercato della Carne - io, lì, sorpresi, alle due di notte Irene Papas e Melina Mercouri sedute su cassette della verdura rivoltate con tailleurs da foyer lirico e preziosi colli di pelliccia, a sorbirsi la loro zuppa accanto a lenoni, intellettuali intorpiditi dalla metaxa, metronotte e barboni. A Piazza Omonia ricordo una mensa spartana di proprietà di un ex calciatore, di cui adesso mi sfugge il nome. La trippa sobbolliva in una vasca enorme poi veniva raccolta con un mestolo, sparpagliata su un piano bizzarro ricavato dal tronco di un albero, affettata ancor più sottilmente e servita in una ...ve le ricordate le schiscette degli operai? con un mestolo della sua acqua di cottura e una correzione di succo di limone, aglio, peperoncino e aceto. Andreas Staikos nel suo grazioso 'Le relazioni culinarie' (Ponte alle Grazie, 8 euro e 26 centesimi) consegna ai suoi lettori una ricetta un po' frettolosa in cui preferisce le trippe e le zampe dell'agnello a quelle del vitello, le lava ripetutamente in acqua, le sfrega con limone e le fa cuocere otto ore, prima a fuoco moderato, poi lento, avendo l'accortezza di schiumare sempre.

Contrariamente a quello che credono in molti la trippa con la feijoada non c'entra nulla. C'entra e tanto con uno dei più deliziosi piatti bahiani, il formidabile sarapatel di cui si legge in quasi tutti i romanzi di Jorge Amado da 'Cacao' a 'Terre del Finimondo', da 'Tocaia Grande' a 'Dona Flor'; in quest'ultimo il poeta Godofredo Filho si mette addirittura in ginocchio davanti al piatto – un po' come Veronelli fece all'Altro Miramonti al cospetto del crescendo di agnello e del suo chef, il bretone Leveille, definendolo 'cibo degli dei'. Il sarapatel si cucina con trippa di maiale fatta rosolare in un trito di aglio, pomodori, menta, erba cipollina e coriandolo con l'aggiunta di alloro, comino peperoncini verdi interi, cipolla e lardo affumicato. Di una piccantezza celestiale.

E I FRANCESI SPALANCARONO ALLE ANIMELLE LE PORTE DEL PARADISO
Sbarcai per la prima volta a Parigi ventenne e affamato di tutto. Parigi per me, allora, era un po' come La Mecca per i musulmani, un'immensa macchina di immagini, una slot-machine per solitari e sognatori: era la città dove Gérard de Nerval passeggiava per le strade con un'aragosta viva al guinzaglio, dove Audrey Hepburn imparava l'arte del soufflé, dove i francesi tenevano in ostaggio la nostra Gioconda e dove Hemingway, con occhi più interessati che interessanti e con un bicchiere di Sancerre, osservava il mondo dai tavolini de la Closerie de Lilas. "Parigi – affermava Jean Giraudoux – è il più libero, il più elegante, il meno ipocrita dei punti d'incontro. Cinquemila ettari di mondo, dove più si è meditato, più si è letto e più si è scritto". Convivevo con una donna di undici anni più navigata di me, romana, con due verdissimi occhi da civetta che finirono per tatuarmi il cuore. Vivevamo nel Quartiere Latino come due personaggi di un film di Eustace in un bel appartamento con un grande camino. Passavamo quasi tutto il giorno a letto, di rado dormendo, incredulo di avere tra quelle coperte una donna capace di gelide risposte e un attimo dopo capace invece di incendiarsi come un altoforno. La mattina, più per gli effetti della mia cronica insonnia che per galanteria mi precipitavo nella boulangerie sotto casa, compravo una baguette, me la infilavo come un termometro sotto all'ascella e dalla boulangerie mi trasferivo nella macelleria accanto dove, per cifre folli, compravo foie gras per almeno otto persone. Poi risalivo in camera, e approfittando dell'ultimo sonno di Francesca, spalmavo lentamente il foie gras sulla baguette, versavo il caffè bollente nelle tazzine, e nei flutes, quel che restava del Sauternes della sera precedente, dopodiché le portavo la colazione a letto. Da allora, ho perso il conto delle volte che sono stato a Parigi; ho mangiato miliardi di ostriche, reso omaggio a tutte le maisons più prestigiose della capitale: da Maxim's, a la Tour d'Argent, da Lasserre a Taillevant, da Prunier-Traktir a Lucas Carton, agli chef più acclamati del momento, da Senderens a Gagnaire, ma pochi locali mi hanno regalato l'euforia di quelle colazioni al foie gras con Francesca o la scoperta dietro Place Vendome di un piccolo e oscuro bistrot auvergnate dove assaggiai un Blue così eccelso da lacrimare di commozione. E con tutto il rispetto per la Tour o per la cucina polimerica del prestigiatore Gagnaire se chiudo gli occhi e penso a Parigi, la prima immagine che mi appare sono i capienti e fumanti scodelloni di purè di Chez Paul - annotatatevi l'indirizzo: 22 rue de la Butte-aux-Cailles. I turisti ne ignorano l'esistenza; è il classico ristorante di quartiere, meta di famiglie e di giovani gourmets che sanno il fatto loro. I piatti del giorno sono scritti col gesso su due lavagnette che scendono dal soffitto; c'è anche pesce ma Paul è un'istituzione nel quartiere per come cucina i quarti di carne meno nobili. Come i romani anche i parigini eccellono nell'arte di cucinare le interiora e se i romani hanno reso mozartiana la coda cucinandola alla vaccinara, deliziosa la trippa maritandola col pecorino, gagliarda la coratella in coppia coi carciofi, fastosa la pajata sui rigatoni, i francesi hanno spalancato alle animelle le porte del paradiso dei gourmet. Hanno esaltato la coda reinventandola in terrina, il sanguinaccio in binomio con le mele, gli zampetti di maiale in fricassea o in insalata con le lenticchie. Insaccano la trippa in salsiccie toste da digerire ma di virile bontà – les andouilles quelle più grandi, andouillettes le più piccole. Ti servono le ossa dei garretti coi crostini caldi perché tu possa spalmarci sopra il midollo che contengono. Un piatto che da 'Chez Paul' ho gustato con indicibile piacere, in attesa della mia andouille, affogata in una salsa di panna inacidita dalla senape e accompagnata da un purè di carducciana memoria.

IL SALAME DI TRIPPA DI MONCALIERI E IL CALLOS ALLA GALLEGA
Nella ristorazione italiana di oggi, dove hanno relegato il brodo tra i fondi di cucina, e che è trionfo - come scrive acutamente Camporesi ne 'Il Palato collettivo' - di piatti confusi, intercambiabili, provvisori, smontabili, senza identità, senza sesso, senza personalità, una simile abbuffata di frattaglie è impensabile e improponibile; ricordo il disappunto di Fabio Baldassarre, straordinario chef de 'L'altro Mastai' qualche tempo fa. Per la prima volta sperimentava l'insuccesso di un suo menu degustazione; gli feci notare che c'erano tre piatti di interiora quasi in successione e gli proposi di sostituirli con altri due piatti che aveva in carta. Bastò questo perché Fabio si riconciliasse con la sua clientela, specie con quella femminile. Per la verità qualcosa che assomiglia alle andouilles esiste anche da noi. Occorre spingersi fino in Piemonte, a Moncalieri, patria di strepitosi cavolfiori e della tripa 'd Muncalè, un sublime salame di trippa nato addirittura nel tredicesimo secolo. Le trippe una volta sbiancate, lavate e bollite vengono compresse e insaccate in un budello largo una dozzina di centimetri e stagionate per un breve periodo. A me piace mangiarlo così, nature, ma c'è chi lo condisce con olio, pepe, limone, aglio e prezzemolo. E le terrine di trippa con le quali Pina Bellini coccolava i commensali della 'Scaletta'? Nel suo grande 'Dizionario della Cucina', Dumas racconta che sette paesi si contesero i natali di Omero, per la trippa invece solo due ma con una tigna da Capuleti e Montecchi: Italia e Francia. Va detto però che anche gli spagnoli sono grandi estimatori e consumatori di trippa, galiziani in testa. Montalban ha nutrito il suo Pepe Carvalho con generose porzioni di trippa alla madrilena, ma Madrid è più terra di cocido che non di trippa, e per mangiare una trippa degna di cotanto nome occore salire più a nord, nella spopolata Galizia dove un abitante su cinque ha più di 65 anni. La Galizia è terra di poverissimi pastori e di emigranti. Fidel Castro, ad esempio è di origine galiziana; suo padre fece fortuna a Cuba grazie alle piantagioni. Era galiziano anche il Generalisimo Franco, per l'esattezza di Ferrol, uno dei sette fiordi delle Rias Altas e porto militare sin dal Settecento; in trentasei anni di dittatura, Franco pensò spesso alla sua Galizia e a come risollevarne la sua economia depressa. Le tentò tutte, finché non provò con l'industria pesante. Oggi le acciaierie che il Caudillo ordinò di erigere appaiono al visitatore come incongrue cattedrali nel deserto, fatiscenti, arrugginite, espugnate dall'edera e dal muschio, messe lì come carcame scenografico a deturpare la strepitosa bellezza dei paesaggi. La trippa dei galiziani è il callos alla gallega, trippa con ceci e chorizo piccante di Salamanca - dodici ore per ammollare i ceci, due ore per cuocere la trippa. Luogo migliore per mangiarla La Coruna nei ristorantini che pullulano nella Ciudad o nei chioschi del suo vivacissimo porto. Nel bresciano la trippa si fa in brodo, coi peperoni, o con le cipolline in umido - mai però in fogli ma sempre tagliata a listarelle - mentre in Valcamonica, oltre alla minestra di trippa con le verdure che di verdure è un trionfo - alle solite carote, cipolle e sedano, qui aggiungono la verza, il porro, le patate, i fagioli e le zucchine - segnalo la deliziosa e sempre più rara tripa dè cunicc mangiata a Darfo, a casa di amici filologi della buona cucina. È la tripì, la trippa del coniglio, pulita, tagliata a pezzetti, cotta con conserva e cipolla e servita con la polenta.

Scrive l'imolese Montanari nel suo 'La fame e l'abbondanza': "l'esclusione del popolo dai piaceri più raffinati della mensa – un'esclusione di fortissima carica simbolica, ideologicamente pensata più ancora che realmente perseguita – servì al potere per celebrare se stesso, per auto-rappresentarsi nel momento della massima discriminazione sociale". Dal Trecento al Cinquecento le masse diventano sempre più inquiete e sempre meno controllabili; nelle città come nelle campagne le rivendicazioni sono all'ordine del giorno e i tumulti e le rivolte non si contano più. È allora che i ricchi scoprono che formidabile mezzo per affermare i loro privilegi sia il cibo; creano così una scala gerarchica degli esseri viventi – piante e animali – il cui valore è determinato dalla posizione occupata sulla scala (per una consueta simbologia legata alle nozioni di alto e basso) per cui il valore cresce salendo e diminuisce calando. Bulbi e radici, ad esempio, essendo così a contatto con l'elemento terragno e avendo la parte commestibile affondata nel suolo diventano in questa scala il cibo più misero; salendo troviamo le erbe, un gradino più su gli arbusti e, infine, gli alberi, i cui frutti svettano nel cielo assieme ai rami e alle fronde. Analogamente i volatili vengono posti al vertice dell'Universo animale, fagiano in testa, eletto in quegli anni cibo nobile per eccellenza. Piero de' Crescenzi, noto agronomo bolognese del Trecento, affermava che tra tutti i cereali utilizzati nella panificazione nessuno eguagliava il frumento, ma ai cavalli, ai buoi, ai porci e ai contadini consigliava il sorgo più indicato per i lavori pesanti, per la serie 'cibo da bestie per una vita da bestie'. Giacomo Albini medico dei principi Savoia predicava ai suoi signori l'astensione dalle zuppe di legumi e dalle frattaglie (in primis le trippe) scarsamente nutrienti e di laboriosa digestione.

SUA MAESTÀ IL LAMPREDOTTO
Cos'hanno in comune Debussy e Mark Twain? Continuate a leggere e lo scoprirete. Qualche anno fa ricevetti la telefonata di una simpatica produttrice londinese, un'ebrea col pallino di Firenze e del Rinascimento. Voleva produrre un film sulla giovinezza di Dante Alighieri e aveva buttato giù un copione che in realtà consisteva in una cinquantina di paginette in cui teorizzava cosa avrebbe dovuto essere il film, con dialoghi paurosamente lunghi. Quando glielo feci presente in una telefonata lei mi rispose 'Don't worry' e scoppiò a ridere come se in quel momento a qualcuno del suo ufficio fosse arrivata una torta in faccia. Aveva sottocontratto il regista inglese Michael Radford, quello de 'Il Postino' e de 'Il Postino' voleva ingaggiare anche i suoi sceneggiatori, Furio e Giacomo Scarpelli. Ma Furio non se la sentiva e Giacomo tra la sua cattedra universitaria e copioni ancora da consegnare non sapeva a chi dare i resti. Così le suggerì di contattarmi. Una premessa: prima di allora a Firenze ero stato solo una volta, in gita scolastica in quinta liceo, e le sole cose che ricordavo erano uno scippo tragicomico alla stazione di Santa Maria Novella e il museo di Villa Stibbert che con le sue armature e i suoi costumi di mammalucchi, samurai e lanzichenecchi. Ero inoltre a digiuno di Dante: della Commedia avevo vaghissime reminescenze, e la vita del suo autore mi era così oscura che per per stabilire se Dante era guelfo o ghibellino dovevo lanciare una monetina in aria. Ma lei insistette di nuovo con un trillante 'Don't worry' e mi mandò in trasferta a Firenze. Partì con una copia del 'Discorso su Dante' di Mandelstam, il più bel commento mai scritto sulla Commedia e con un carnet di indirizzi di studiosi che mi avrebbero spiegato come si viveva ai tempi del Sommo. Cosa si mangiava, come si passava il tempo libero, di cosa ci si ammalava, come ci si vestiva, e così via. Trovai alloggio vicino alla Stazione: camera con vista sui binari, in una pensione infestata da una mandria di adolescenti danesi pazze per il Rinascimento e per le bottiglie di Peroni da un litro, che non rientravano mai in camera prima delle due e che, sbattendo le porte, non producevano mai scosse inferiori al terzo grado della scala Mercalli.

Una mattina vagando per le strade di Firenze, dalle parti della Statua del Porcellino mi imbattei in un piccolo chiosco a quattro ruote, tutto in acciaio, attorno al quale si aggrumava un crocchio di umanità affamata. E così grazie a Dante, e alla mia produttrice ebrea, scoprì una delizia che ignoravo, il lampredotto, che fino ad allora credevo un parente un po' scemo della lampreda. Anatomicamente, il "Lampredotto" è l'abomaso, il quarto stomaco del bovino. Viene chiamato anche frasame, riccia, frangiata, quaglio, riccioletta o spannocchia. Il suo nome strambo sembra che derivi da 'lampreda', pesce simile all'anguilla che avrebbe, una volta cotto, le carni frangiate dello stesso colore di questa stupenda "trippa fiorentina". A un lato del banco, tra verdure fresche, limoni e insalata, c'erano lampredotti, trippa e puppa, la mammella del bovino, già bolliti e pronti per essere cucinati. Sull'altro lato del banco, due pentole gorgoglianti di brodo in cui galleggiavano pomodori, carote, prezzemolo, cipolla, spicchi di patate e grandi pezzi di lampredotto. Il trippaio tagliava in due il panino, inumidiva appena le sue due facce interne col brodo, lo farciva col lampredotto e poi sale e tanto pepe nero. Scoprì così che il lampredotto a Firenze era un'istituzione, né più né meno come la ribollita o la fiorentina. Orazio Nencioni ha il suo banco in Piazza del Mercato nuovo accanto alla statua del Porcellino. Fulvio Laporta prepara ottimi panini in Piazza delle Cure accanto al Mercato della frutta. Vicino a Porta San Frediano, in Piazza Dei Nerli, c'è il chiosco di Simone Balleggi. Altri trippai li trovate in Piazza di porta Romana accanto ai banchi della frutta, in Via Gioberti, vicino a Piazza Beccaria, in Via Maso Finiguerra vicino al giornalaio, al Mercato di San Lorenzo, in Via dell'Ariento. Andrea Zinci simpatico cultore del lampredotto ha il banco in Via Benedetto Dei e un sito divertente da visitare con tante ricette e belle foto - che non si possono scaricare; Zinci te le invia a casa tua solo se gli compri qualcosa. Molto gettonato è anche Iasci, nella Piazza del Galluzzo, appena fuori Firenze, all'imbocco della superstrada Firenze-Siena. Quanto a Debussy e Twain, il nesso dov'è? Hanno abitato entrambi a Firenze, Twain a Villa Viviani quando era proprietà del mercante d'arte lituano Bernard Berenson, Debussy dando lezioni di piano alla baronessa Nadezda von Meck, amica di Cajkovskj a Villa Oppenheim, oggi diventata un Hotel, il Villa Cora e tutti e due hanno mangiato il lampredotto. Con grande godimento. A Scandicci c'era (c'è ancora?) il ristorante-tripperia Bella Ciao dove tutto, ma proprio tutto, dagli antipasti al dolce, è cucinato con trippa e lampredotto, alla maniera dei leggendari pranzi a tema cinesi - avete presente quelli della serie 'il daino in 13 portate o il pavone in 18?'. Nel menu del Bella Ciao si poteva ordinare la soppressata di trippa, la bruschetta con cavolo nero, lampredotto e olio toscano, la trippa fritta, il lampredotto ai funghi porcini, ai tartufi o speziato all'eritrea e un incredibile dessert: biscottini secchi di trippa e lampredotto da inzuppare nel vinsanto.

GRASSE OSTRICHE DI GALWAY E DRISHEEN IN ZUPPA
Canta Tom Waits: "Non esiste il male. Esiste Dio che ogni tanto si ubriaca". Con gli irlandesi Dio è finito spesso sotto al tavolo. Sarà stata colpa della Guinness, dei tanti whisky di cui va fiera questa terra, o perché l'Irlanda è sempre stata un livido, un'ecchimosi, sulla spalla inglese, fatto sta che qui la vita è sempre stata turbolenta. "Questo non è un paese per vecchi" sosteneva William Butler Yeats, ed è difficile dargli torto perché, tra scioperi, carestie, terrorismo e guerre civili, morire di vecchiaia in Irlanda è stato spesso un privilegio per pochi. Dei paesi dell'area britannica questo è la terra dove si mangia meglio; benché continui a considerare un crimine culinario le grasse ostriche di Galway innaffiate di Guinness e sdoganate al turista con burro e pane nero – sono fra quelli che considera un affronto anche una sola goccia di limone su qualunque mollusco e sui ricci di mare – l'Irlanda accoglie il visitatore con formaggi discreti, deliziosi sanguinacci, zuppe gagliarde, agnelli e salmoni selvaggi strepitosi. Se nell'area britannica la frattaglia regina è il rognone, in Irlanda esiste un Fine Gael devotissimo alla trippa, specie nella città di Cork. Cork, è la seconda città d'Irlanda ed è stata a lungo la capitale mondiale del burro (salato) che da qui emigrava freschissimo sulle tavole di mezza Europa, e quando il burro smise di rendere prospera la gente di Cork, Cork pescò il jolly dell'industria pesante. Qui la Ford costruì i suoi primi stabilimenti fuori dagli Stati Uniti, e dopo la Ford toccò alla Dunlop e poi alla Verolme Shipyards, ma anche qui il boom non fu eterno e gli stabilimenti, ad uno ad uno, chiusero i battenti. Adesso la scommessa di Cork è nell'industria turistica, più che legittima se consideriamo che è una città in cui vivono 130.000 persone disseminate in un contesto più francese che irlandese con le case del centro ornate di finestre a mansarda esattamente come capita di vedere a Parigi, mentre a nord, sulla Collina di San Patrizio, l'impressione che accompagna il viaggiatore è di attraversare un'enclave della Provenza. Senza contare che il suggestivo centro di Cork è un'isola che emerge tra le due diramazioni del fiume Lee. La gente di Cork è cordiale e allegra tranne quando parla di Dublino, le ragazze hanno belle caviglie operaie e i vecchi amano ripetere "Qui c'è tutto quel che occorre nel nostro paese" anche se a loro non occorre mai niente. Se il visitatore avrà l'acume di visitare il Mercato scoprirà che qui la trippa è sovrana. La fanno bollire in una zuppa concepita come il menudo messicano e la patsa ateniese per foderare lo stomaco in vista delle bibliche sbornie del sabato sera. Nella zuppa trova asilo anche il delizioso drisheen - un sanguinaccio di manzo addensato con cereali - che viene cotto a parte e aggiunto alla zuppa solo alla fine. A molti irlandesi piace crudo, altri lo affettano e lo scottano appena.

A quindici chilometri da Treviso, a Badore di Morgano, in una delle più belle piazze italiane, c'è un ristorante delizioso. il ristorante di Ivano Mestriner: trenta coperti, cucina a vista, legno chiaro, ampie vetrate. Nella mia Hall of Fame di goloso poche volte mi sono imbattuto in un cuoco geniale e divertente come Ivano; Davide Paolini lo ha definito uno chef compositore, io invece trovo che sia molto più affine a un alchimista. L'alchimia è un'antica pratica protoscientifica che combina elementi di chimica, fisica, astrologia, arte, semiotica, metallurgia, medicina, misticismo e religione, esattamente come la cucina di Ivano. Ivano è riuscito nell'impresa di nobilitare tagli di poco pregio, interiora che molte macellerie non lavorano neppure ma gettano direttamente nella spazzatura. Ha cominciato a studiarle, a sperimentarne le potenzialità, a proporle e a reinventarle nei modi più strabilianti. Così, ogni volta che un piatto di Ivano arriva in tavola, vedi nella mimica del commensale lo stupore per un accostamento, il prodigio per un sapore inedito, la gioia infantile per un'invenzione. Fino a dieci anni fa Ivano si guadagnava da vivere come lavapiatti in una spaghetteria; il padre era macellaio, lui sognava la toque. Non frequenta scuole ma va a bottega da Marchesi e 'All'altro luogo' di Stefania Moroni. Finché non decide di mettersi in proprio. Un amico gli presenta un altro Houdini della frattaglia, Mastro Cazzamali, macellaio sopraffino di Romanengo. L'alchimista Ivano è ormai a un passo dalla Pietra Filosofale che vede la luce nell'estate del 2004, nella Rotonda di Badoere. Ivano si inventa la Frattaglialonga, una maratona nel quinto quarto con piatti come il cuore di vitello marinato, la tartare di diaframma, il cervello d'agnello marinato nel prosecco e nell'erba Luisa, l'hamburger di animelle con uovo cotto a bassa temperatura e tartufo estivo, il calamaro di cipolla ripieno di milza, il gelato al foie-gras e i garganelli con le guancette di coniglio che aspira con un attrezzo inventato da suo padre. È timido ma caparbio, lavora dalle sedici alle diciotto ore al giorno, se c'è mercato è gia in piedi alle cinque, sennò entra in cucina alle sette. Chi va a lavorare da lui è avvisato. In tre anni ha cambiato 33 cuochi. 'Vengono - dice Ivano - convinti di passeggiare poi scoprono che la cucina è sudore, specialmente a star dietro alle frattaglie che richiedono la pazienza e la precisione di un orefice'. Sante parole. Provate ad andare in Piemonte a caccia di una finanziera. Fate prima a trovare la bottarga di un narvalo.